- Uscita
- 2024
- Regista
- Alex Garland
- Paese
- USA
- Durata
- 109'
Voto complessivo
I nostri voti
In breve
A seguito di una delle elezioni più tese della storia degli USA, il nuovo presidente avvia una politica centralista aggressiva che si traduce in una limitazione progressiva dei diritti civili e sociali. Alcuni Stati del West, capeggiati da Texas e California (“Red e Toby nemiciamici”), contrari alla politica del nuovo presidente, si mettono in marcia contro Washington che ormai, cinta d’assedio, sta per cadere.
Banale sinossi o profezia da cartomante?
Probabilmente entrambe, ma è su questo equivoco che sembrerebbe giocare anche Alex Garland, con occhio attento sul presente. Con una precisazione: il film non è strumento di lode o di condanna di determinate politiche e di personaggi strampalati prestati alla politica, è invece una cronaca di guerra, una cruda stenografia di eventi straordinari nel mezzo di una ordinaria guerra civile.
Il racconto sembra quasi voler prendere lo spettatore, soprattutto quello statunitense, e chiedergli: gli USA sono sul punto di implodere? Ci sono i presupposti per una nuova guerra civile? Se così fosse, gli eventi che vedi sono veramente plausibili?
È possibile che dei connazionali comincino a spararsi l’uno sull’altro quando fino al giorno prima erano uniti nello sparare al resto del mondo?
Quale sia la causa della guerra e di cosa sia realmente responsabile il presidente non ci è dato saperlo. Non credo che sia una lacuna, piuttosto, come dicevo, non è su questo che vuole essere indirizzata l’attenzione del cinefilo e della persona che quel giorno ha aperto Prime Video pensando che ci fosse la Champions (eccomi). Provando a interpretare il pensiero della produzione, “a noi interessa la guerra, il quotidiano e le reazioni delle persone, la cazzo de locura”; che le ragioni del conflitto siano indagate dalla storia e dalla politologia.
Una conferma sembrerebbe arrivare dal trittico regia, sceneggiatura e fotografia, che viaggiano sulla stessa linea d’onda: la narrazione viene presentata attraverso il filtro del giornalismo di guerra e le lenti delle macchine fotografiche dei fotoreporter protagonisti, impreziosita da una fotografia (quella cinematografica) molto azzeccata che sembra proprio presentarci la pellicola come se fosse stampata su Internazionale o filmata in un reportage del Tg3 mondo.
Ovviamente quella che vi propongo è solo l’impronta che il film ha lasciato su di me, ma non ho paura di smentite: come la giustifichereste altrimenti la scelta di un’apatica, e pure un po’ scazzata, Kirsten Dunst nel ruolo della protagonista? D’altronde, avendo deciso in questo bailamme di recarsi a Washington per intervistare il presidente prima della sua caduta, la sua è una reazione fisiologica. C’è materiale per Red Bull, che potrebbe organizzare delle competizioni di questo nuovo sport estremo.
Quest’ultimo punto mi dà il gancio per affrontare ciò che mi ha convinto meno di questo film (sennò perché vi avrei parlato di Kirsten Dunst?!?), ovverosia la “banalità del male”, per darmi un tono colto. Se, infatti, il focus sugli eventi e sulla missione giornalistica narrata caratterizza fortemente il film, è altrettanto vero che questa attenzione spasmodica quasi del tutto priva di elementi di contesto espone al rischio di una polarizzazione bene/male, che è l’opposto dell’obiettivo dichiarato dal film. In altri termini, soprattutto nella parte finale si rischia di guardare al presidente come a un villain fumettistico che viene combattuto da una crociata di eroi della libertà e della democrazia.
Al di là di questo, ci tengo a chiudere la recensione sottolineando di nuovo la forza di quest’opera. Si può discutere sul fatto che abbia o meno un impatto cinematografico, ma mi sento di affermare che colpisca (o dovrebbe colpire) lo spettatore; forse avrò scelto un giorno in cui accusavo troppo gli eventi del 2024, in ogni caso mi ha regalato cinque minuti di angoscia e vuoto cosmico davanti allo schermo mentre scorrevano i titoli di coda.